Mio adorato Alonso, ti scrivo per farti sapere che sto bene e in buona salute, così come spero di te.
Nel pacco ho messo quasi tutte le cose che mi hai chiesto. Avrei voluto mandarti tutto, ma anche da noi la situazione diventa ogni giorno più difficile. Ormai tutti sembrano convinti che la guerra civile è alle porte. Perdonami, cercherò di inviarti al più presto il resto.
Ti ho mandato il torrone, quello duro e pieno di mandorle che ti piace tanto, non molto però perché i prezzi sono troppo alti. Ti ho messo anche delle sardine essiccate, che sono più a buon mercato. Se puoi farle sulla griglia, non dimenticare di mettergli molto aglio ben tritato all’interno e dell’aceto sopra, così saranno più buone.
Sento tanto la tua mancanza e non vedo l’ora di poterti riabbracciare. Il nostro amico dell’associazione degli avvocati del popolo, mi ha assicurato che non potranno tenerti molto in carcere e che presto tornerai a casa. Io prego sempre la beata Rita Dolores perché si avveri quanto prima.
Alla casa parliamo spesso di te. Tutte ricordano la tua allegria e la disponibilità che hai sempre dimostrato con loro. Nina ha preso l’abitudine di suonarci con la chitarra le tue canzoni. Ascoltiamo ammaliate la sua bella voce e cominciamo a sognare grazie alle stupende parole d’amore e di felicità che hai composto.
A volte balliamo tra noi ed io, attaccata al manico della scopa, chiudo gli occhi e ricordo il tuo abbraccio.
Quando aprirai il pacco, in cima alle cose che ti ho mandato, troverai una foto. Voglio che tu la conservi, così quando la guarderai, penserai a me. L’ha fatta un giovane di passaggio, un francese di cui non ricordo più bene il nome, mi sembra si chiamasse Brason o Breson. Era il giorno della festa di San Giovanni e noi ci stavamo preparando l’acconciatura, per i grandi festeggiamenti che ci sarebbero stati nella casa, la sera.
Era comparso all’improvviso e girandoci intorno ripeteva: guardate me, guardate me, ora vi faccio una bella foto, bravi, bravi, siete bellissimi. Noi istintivamente girammo lo sguardo verso di lui, senza immaginare che ci avesse colto proprio in quell’attimo. Credevamo ci stesse solo inquadrando, aspettando che ci mettessimo in posa. Invece, aveva già scattato quella che pensava sarebbe stata la più bella; presa all’improvviso, senza che ce ne accorgessimo.
Sembriamo davvero in posa con delle espressioni strane, ma così vere. Di sicuro più naturali di quella in cui c’eravamo messi in posa, seriosi, forse anche sorridenti e divertiti. Una foto che posso solo immaginare, perché non la fece davvero.
Ci spiegò che le realizzava sempre così. Faceva un solo scatto poi chiamava per chiedere attenzione e tra un incitamento e l’altro, attendeva guardingo se potesse esserci un’altra posa più interessante, bella e armoniosa. Evidentemente con noi non ebbe l’ispirazione e nonostante ci incitasse, e avesse l’indice pronto sul pulsante della macchina fotografica, non scattò nessun’altra foto.
Il giorno che tornò per mostrarcela non immagini quanto abbiamo riso. Come vedrai siamo venuti davvero bene e gli riconoscemmo subito che era stato molto bravo. Ci disse che un giorno avrebbe fatto una mostra delle sue foto e senz’altro ci avrebbe invitato. Gomez gli chiese subito di averne una copia, perché voleva incorniciarla e metterla nel suo negozio. Quell’uomo non perde mai l’occasione di chiedere, se è sicuro che sarà gratis.
Anche lui però è venuto molto bene, con quel bellissimo viso dai tratti effeminati, su un corpo sgraziato; a parte le dita delle mani che sono davvero belle, lunghe e affusolate come quelle di un pianista; a vederle non sembrerebbero quelle di un barbiere.
Anch’io gli dissi che ne volevo una; già pensavo di mandarla a te. Solo Fatima la guardò senza dire nulla e si allontanò. Il giorno dopo mi confidò che aveva paura, perché il giovane ritraendole il viso le aveva rubato l’anima. Cercai di convincerla che era un timore senza fondamento, ma non c’è stato verso, la sua religione diceva in quel modo e anche per lei era così.
Povera Fatima, alcuni mesi fa ha deciso di tornare nel suo paese e da allora non ho più sue notizie. Mi mancano tanto quei magnifici ricci increspati, neri come il carbone, che se ci passavi una mano dentro, sembravano inghiottirla e facevi fatica a ritirarla. Quegli occhi così grandi, anche loro così neri, dove ci leggevi, come se fossero il libro della sua anima, tutto l’amore che aveva per il mondo.
Qualche giorno dopo il giovane è tornato portandoci le nostre copie della foto. Solo allora mi sono accorta che se la guardavi senza sapere, sembrava che io stessi cercando di difendere, minacciandolo con un rasoio, un’impaurita Fatima dal violento Gomez che l’aveva afferrata per i capelli. Invece io, che ero agghindata con il fez e i gioielli di Fatima, stavo solo passando a Gomez il rasoio con cui doveva accorciare quell’enorme cespuglio di capelli ricci della marocchina. Allora ho pensato a te e ha come sia facile sbagliare, credendo che una cosa possa significare altro.
Se avessero trovato Gomez morto, la polizia non avrebbe avuto nessun dubbio nel venire ad arrestarmi, perché da quella foto sembra proprio che lo stessi minacciando. Proprio com’è successo a te nel treno mentre tornavi da Salagoza, quando hanno trovato quel nazionalista morto e ti hanno incolpato di averlo ucciso dopo la lite avuta con lui, mentre sostenevi le tue ragioni a favore della Repubblica. Nessuno ti ha visto farlo, ma ti hanno incolpato lo stesso. Gli è bastato che altri avessero udito le tue parole durante la lite, per accusarti.
Quando ci penso, piango pensando a come è triste la vita. Un momento sei felice, l’attimo dopo sei finito. Io sono certa che tu sei innocente. Ti conosco troppo bene per credere che tu possa aver commesso un’azione così ignobile. Per questo aspetto fiduciosa il tuo ritorno, pregandoti di essere forte e sereno: la giustizia trionferà.
Mio adorato Alonso ora devo smettere di scrivere, perché tra poco la casa chiude ed io devo tornare in cucina, per preparare la cena per le signorine che saranno stanche e affamate.
Un grandissimo bacio dalla tua amata sorella Speranza
Alicante 21 settembre 1933
La lettera
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- Scritto da Vincenzo Di Giacomo
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