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Salve, Buongiorno, Piacere, Complimenti, Felicitazioni, Congratulazioni, Auguri, Condoglianze, eccetera, eccetera.
A volte basta una sola parola per semplificare una conversazione. Se impariamo a modularne il tono, accresce anche piacere della comunicazione, soddisfacendo da sola, la persona verso cui la rivolgiamo.
Una stretta di mano è ben altra cosa, non esprime solo un contatto concesso, pubblico o privato, ma di più, il nostro piacere a mischiare umori, odori, sapori e quant’altro avviene con tale gesto, verso la persona con cui la condividiamo. È differente per le centinaia di variazioni dettate dal luogo, dal ruolo e dalle circostanze. Una stretta di mano non è muta, ma può essere sorda. Dipende dall’intenzione che mette nel gesto chi la dà, e dalla volontà percettiva di chi la riceve.
Sembra il postulato di uno studioso sulla personalità, invece è il sunto di una lunga e articolata disquisizione che su di essa mi diede Eleonora.
Eleonora, nell’attesa di terminare gli studi universitari e per contribuire ad arrotondare la magra economia famigliare, aveva imparato a leggere i tarocchi. Una scelta banale e alquanto approfittatoria della credulità popolare, pensai, ma in seguito dovetti rivedere quel sommario giudizio, non tanto sulla bontà delle previsioni che ricavava dalla lettura delle carte, quando nella tecnica preparatoria alla loro realizzazione, su cui mi soffermerò in seguito.
Eleonora all’anagrafe fu registrata come Giovanna Eleonora, senza virgole e con lo spazio tra i due nomi. Uno dei rari casi di doppio nome che ogni tanto i cervelli informatici dei comuni non evidenziano come errore. Eh, sì, nella moderna era informatica per cui tutto è incasellato secondo un criterio logico e limitato dalla lunghezza di un byte, è concesso avere più nomi purché divisi da una virgola, oppure scritti senza spazi. A lei, invece, era stato, misteriosamente, concesso il doppio nome, senza virgole e con lo spazio.
Mi raccontò che quando decise di mettere a frutto il suo sapere sui tarocchi, estrasse due carte dal mazzo per verificare se la sua idea avesse avuto prospettive positive. La prima carta che estrasse fu l’arcano quattordici: la “temperanza”, e di seguito l’arcano dieci; la “fortuna”.
Non ebbe alcun dubbio nel riconoscere che la sua “carta del destino” era la dieci, mentre ebbe qualche perplessità sul significato intrinseco da dare alla carta quattordici: una figura femminile che travasa l’acqua della vita tra due brocche.
Mentre era presa a riflettere, dalla cucina sentì la voce della madre che, com’era solito fare per dare maggiore urgenza al richiamo, pronunciò di seguito i suoi due nomi: Giovanna! Eleonora! S’illuminò la mente, guardò sorridendo la carta e sentenziò che la mescita del fluido vitale tra le due brocche non poteva avere altro riferimento se non alla particolarità del suo doppio nome e decise che a fare i tarocchi non sarebbe stata lei, Giovanna, bensì Eleonora.
Giuro che non risi quando lo raccontò, ma mi riportò alla mente la massima di un politico: “Dimmi, dove vuoi arrivare e le motivazioni te le trovo io”; lei, senza saperlo, aveva realizzato la massima del politico, in altri modi, ma con lo stesso fine.
Torniamo alla stretta di mano.
Per un certo periodo Giovanna ed io diventammo intimi. Lo ricordo ancora con piacere e qualche nostalgia. Mi piaceva fisicamente e mi divertiva con quel senso dell’ironia sulla vita, spensierato e gioioso. “Viviamo se guardiamo con curiosità il mondo” diceva, “non perché apriamo gli occhi ogni mattina e li chiudiamo la sera”. Un principio che non si riferiva al mondo formato dalle consuetudini e dalle abiure, come ci appare alla vista, ma quello più nascosto e simulato che si palesa con il tatto.
Non crediate fosse la tipa che andasse in giro a palpare ogni cosa, né una novella San Tommaso. Era semplicemente una persona che riteneva il contatto tra due mani espressione del proprio stato d’animo e della storia che nel tempo si era sedimentata nel carattere. Oggi che si fanno ricerche su tutto, la psicanalisi, la sociologia e l’antropologia, potrebbero spiegare meglio quello che Giovanna aveva intuito, quando era Eleonora.
Mi disse che quando faceva le carte, prima di sparpagliarle sul tavolo, dal cliente di turno, uomo o donna che fosse, si faceva dare la mano e da come gliela porgevano, percepiva lo stato d’animo della persona che le stava di fronte. Se la mano era distesa, appoggiata con il dorso sul tavolo e il braccio allungato come una linea retta, era segno d’insicurezza ma di misurata attenzione. Se, invece, la mano era tenuta a mezz’aria, quasi in linea con la spalla, era segno di profondo disagio. E, se invece, la mano era tenuta di sbieco e il gomito appoggiato sul tavolo, era segno di fiducia e attenta curiosità.
Dalle differenti pose che essi assumevano nel darle la mano, decideva anche come avrebbe capovolto le carte: farle indicare al cliente e capovolgerle lei, oppure lasciare a esso il compito, limitandosi a tenere la sua mano per “sentire”, attraverso i movimenti dei muscoli, le emozioni che scaturivano dall’immagine della carta e dalla sua “chiamata”; l’eremita, le stelle, la torre e così via.
La mano che teneva nella sua le parlava meglio di ogni sguardo o di qualche ammiccamento espressivo del viso.
Conoscendo il mio scetticismo sull’argomento, per fornirmi prova della validità della sua affermazione disse che presto mi avrebbe invitato a fare un gioco che, a suo avviso, lo avrebbe messo definitivamente in discussione.
Una sera che andammo in pizzeria con degli amici, rammentandomi la promessa, m’invitò a chiudere gli occhi e dopo aver fatto spostare di posto gli altri, mi disse di prendere la mano della persona alla mia destra e di fare un profilo a chi pensassi appartenesse, senza fare nomi.
Risi pensando sarebbe stato facile abbinare la mano a una persona che già conoscevo, ma riflettendo a occhi chiusi, compresi che non avendo mai stretto le mani dei miei amici in maniera così intensa e continua, l’impresa di abbinamento sarebbe stata piuttosto ardua. Infatti, nonostante il mio impegno, la caratterizzazione che avvertivo nella stretta di mano mi fuorviò a tal punto che quando mi chiese di indicarne il sesso, due volte su tre sbagliai.
Aveva avuto ragione lei e quando vollero farlo anche gli altri amici, mi resi conto di non essere il solo analfabeta del contatto fisico.
Il gioco non terminò in pizzeria ma continuò a casa mia. Di quella notte ho un ricordo che non si cancellerà mai.
Ora ti farò vedere, disse, i nostri corpi come li percepisce la nostra mente attraverso le nostre mani. Impareremo a conoscere meglio la nostra intimità e vedrai quante cose nuove scoprirai di me ed io di te.
Ci bendammo; io spogliai lei, e lei me. Mi prese una mano e tenendola stretta nella sua, m’invitò a toccarla in ogni parte del corpo. Pian piano il corpo che non vedevo, si materializzava nella mia mente così come lo sentivo sotto le dita, il palmo e il dorso della mano. Coglievo e percepivo ogni curva del suo corpo, come mai mi era successo fino a quel momento, abbandonandomi alla carezza della sua mano sul mio. Sentivo nella mano che stringevo, il pulsare del piacere e della tranquillità che ci invadeva; dolce e travolgente nello stesso tempo. Ci amammo come non avevamo fatto mai, addormentandoci sfiniti.
Ancora una volta aveva avuto ragione, di me e della mia presunzione. Credo sia stata l’ultima volta che ho amato davvero il corpo di una donna.