Mangio cioccolata da quando sono bambino. La portava mio nonno; tutti i giorni una barretta. Quando è morto, ho chiesto a mio padre di comprarla, ma lui spesso dimenticava di farlo perché era sempre impegnato in ufficio.
Quando però se ne ricordava, mi faceva recuperare, portandone una confezione da ventiquattro pezzi. Inutile chiedere a mia madre di comprarla. Quando la scopriva, nascosta in fondo ai cassetti o dietro i libri, la sequestrava urlando che il pediatra le aveva detto che ero in sovrappeso.
Era fatta con le nocciole a granelli. Odorava di buono e prima di poterla mordere, dovevo tenerla in bocca per un po’, perché s’intenerisse. Se la tenevo in tasca per troppo tempo, quando la scartavo, dovevo stare attento perché mi sporcava le dita, come fosse stata fatta con l’inchiostro marrone. Era fatta con cioccolato fondente peruviano puro al novanta percento, come l’oro.
Ora non la fanno più la fabbrica è fallita. Forse perché la facevano con prodotti di primissima scelta, e per tenere basso il prezzo sono andati a carte quarantotto. Sul mercato la concorrenza tra la cioccolata è spietata.
Il marchio invece, esiste ancora, l’hanno comprato gli americani, che la fanno produrre a Taiwan. Non sapevo che a Taiwan facessero anche la cioccolata; infatti, è diventata orribile.
In fondo meglio così, perché ora davvero non posso mangiarla più.
Non perché sono in sovrappeso, come credeva, sarei diventato quel ciccione dell’ex pediatra, e neppure perché mi è venuto il diabete. Più semplicemente ho delle carie diffuse a tutti i denti, e il mio dentista, dopo averle eliminate, mi ha raccomandato di non masticare cioccolata, perché possono facilmente ricomparire.
Non immaginavo che la cioccolata potesse creare tanto danno ai denti. Mi ero documentato e avevo letto che è un antidepressivo, che fa bene al cuore, che protegge le arterie, che stimola la concentrazione e il desiderio sessuale. Mi era sembrato giusto protegge e aiutare il mio corpo e la mia vita di relazione, e ho continuato a farne largo e intenso uso.
Ho pensato che non c’era bisogno di masticarla perché avrei potuto succhiarla, come un capezzolo materno che invece di rilasciare latte, m’inondasse il palato della sua dolcezza. Oppure farmela sciogliere lentamente in bocca, tenendo stretti i denti e carezzandola vigorosamente con la lingua e i muscoli delle guance; ripulendo la cavità orale, con un sanificante bicchiere d’acqua.
No! Ha risposto lui, la cioccolata è bandita per te, fai finta che non l’abbiamo mai inventata.
Ecco, fare finta. Come si fa a fingere di non ricordare, di non averne voglia? Quando cresci a pane e cioccolata è difficile passare a pane e olio, che pure gradisco molto, sia chiaro, ma è proprio un'altra cosa.
Se fossi credente, avrei potuto fare un fioretto. Di quelli che durano una settimana, un mese, un anno. Non mi è sembrato il caso di confondere il desiderio fisico e voluttuario, con un’autopunizione. In fondo quale contropartita avrei potuto chiedere per un tale sacrificio, in favore dei miei denti cariati.
Fatto sta che da otto mesi la mia bocca, le papille gustative, l’olfatto, gli occhi, sono stati privati della cioccolata. Illudendomi del risultato raggiunto dimentico la mia testa. L’unica che non posso comandare a piacimento. E, ogni tanto ricordo.
A volte nei sogni non ci sono solo i ricordi di quel nettare che mi circonda in mille forme e nei centomila colori delle confezioni; sogno anche il gusto e l’odore. Ho letto che la cioccolata porta dipendenza e non riesco a capire come sia possibile che avvenga. Ho consultato uno psicologo che mi ha rassicurato che non sono simile a un drogato, ma come lui, subisco le stesse patologie dell’astinenza.
A volte cerco di imbrogliare i miei sensi con altri sapori, delicati e odorosi; ma alla fine rifletto e capisco che il primo amore, davvero, non si scorda mai.
Il primo amore
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- Scritto da Vincenzo Di Giacomo
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